Gemini Pro
Laelius de Amicitia – Un’Analisi Filologica e Filosofica del Trattato Ciceroniano sull’Amicizia
Sezione I: Prolegomeni al Laelius de Amicitia: Contesto, Scopo e Struttura
1.1. Il Crepuscolo della Repubblica: Il Contesto del 44 a.C.
L’anno 44 a.C. rappresenta uno dei momenti più traumatici nella storia di Roma e nella biografia di Marco Tullio Cicerone. Le Idi di Marzo, con l’assassinio di Gaio Giulio Cesare, non inaugurarono la restaurazione della libertà repubblicana sperata dai congiurati, ma un vuoto di potere che accelerò il collasso delle istituzioni. In questo clima di incertezza, segnato dalla nascente lotta per il potere tra Marco Antonio e il giovane erede di Cesare, Ottaviano, Cicerone si ritirò dalla vita politica attiva. Questo otium forzato, tuttavia, non fu un periodo di inattività, ma si trasformò in una stagione di febbrile produzione filosofica. In questo breve lasso di tempo videro la luce opere capitali come il De Senectute, il De Officiis e, appunto, il Laelius de Amicitia.
La scelta di dedicare un trattato all’amicizia in un momento di così profonda crisi politica non è casuale né puramente accademica. Si tratta, a un’analisi più attenta, di un atto squisitamente politico. Cicerone non sta semplicemente cercando una consolazione personale nelle riflessioni filosofiche; sta proponendo un modello per la ricostruzione morale e politica dello Stato romano. Il ragionamento che sottende questa scelta è potente: la res publica è crollata a causa del tradimento, dell’ambizione sfrenata e della dissoluzione dei legami di fiducia. Le alleanze politiche si sono rivelate patti di convenienza, pronti a essere infranti per il tornaconto personale. In questo scenario, Cicerone evoca l’ideale della vera amicitia, l’amicizia basata sulla virtù, come fondamento indispensabile per ristabilire un ordine giusto. Ambientando il dialogo nel 129 a.C., un’epoca che egli idealizza come un’età dell’oro di stabilità repubblicana, e mettendo in scena figure esemplari come Scipione Emiliano e Gaio Lelio, Cicerone crea un contrasto deliberato con la corruzione del suo presente. L’amicizia tra uomini virtuosi (boni viri), fondata su un accordo di intenti e valori (consensus), diventa così il microcosmo della repubblica ideale, un manifesto implicito che esorta i suoi contemporanei ad abbandonare il fazionalismo per riscoprire una forma di associazione più alta, l’unica in grado di salvare lo Stato.
1.2. Il Dramma Personale: Consolazione Filosofica e Dedica
Accanto alla motivazione politica, agisce una spinta profondamente personale. L’anno precedente, nel 45 a.C., Cicerone era stato colpito dalla più grande tragedia della sua vita: la morte dell’amatissima figlia Tullia. Questo evento lo gettò in una prostrazione profonda, dalla quale cercò sollievo proprio nella filosofia. Il Laelius de Amicitia, come il quasi coevo De Senectute, può essere letto anche come una consolatio filosofica, un tentativo di elaborare il lutto e trovare un senso duraturo nei legami umani di fronte alla caducità della vita.
La dedica stessa dell’opera è una testimonianza programmatica. Il trattato è indirizzato all’amico di una vita, Tito Pomponio Attico, un cavaliere romano che, pur mantenendosi lontano dalla politica attiva, fu per Cicerone un costante punto di riferimento, un consigliere fidato e un sostegno incrollabile. La loro amicizia, durata decenni e sopravvissuta a ogni tempesta politica, rappresenta l’esempio vivente di quella vera amicitia che il dialogo si propone di teorizzare. Dedicando l’opera ad Attico, Cicerone non compie un gesto puramente formale, ma offre una prova concreta della validità delle sue tesi. L’opera è inoltre pensata per l’educazione del figlio Marco, a sottolineare l’intento pedagogico di trasmettere alle nuove generazioni i valori fondanti della tradizione romana.
1.3. L’Architettura del Dialogo: La Scelta di Lelio e l’Eredità Scipionica
Per veicolare il suo messaggio, Cicerone adotta la forma del dialogo, un genere letterario di ascendenza platonica e aristotelica che egli adatta magistralmente al contesto culturale romano. La scelta dei protagonisti e dell’ambientazione è cruciale. Il dialogo è ambientato nel 129 a.C., pochi giorni dopo l’improvvisa e misteriosa morte di Publio Cornelio Scipione Emiliano, il distruttore di Cartagine e figura centrale del cosiddetto “Circolo degli Scipioni”.
Il protagonista e portavoce delle tesi di Cicerone è Gaio Lelio, soprannominato Sapiens (il Saggio), il più intimo amico di Scipione. Questa scelta drammaturgica è geniale: Lelio non parla dell’amicizia in termini astratti, ma a partire da un’esperienza vissuta e da un dolore ancora fresco. La sua riflessione acquista così un’autenticità e un’autorità che nessuna dissertazione puramente teorica potrebbe avere. Gli altri due interlocutori sono i generi di Lelio, Gaio Fannio e Quinto Mucio Scevola l’Augure, due giovani esponenti dell’aristocrazia destinati a importanti carriere politiche. Essi non sono semplici figure di contorno, ma hanno la funzione maieutica di stimolare la discussione, porre le domande giuste e spingere Lelio a esporre in modo sistematico il suo pensiero, che di fatto è il pensiero di Cicerone stesso.
1.4. Le Fonti Greche e l’Eclettismo Ciceroniano: La Romanizzazione della Filosofia
Cicerone non crea la sua dottrina sull’amicizia dal nulla. Egli attinge a piene mani dalla ricca tradizione filosofica greca, operando con il suo caratteristico metodo eclettico. Le fonti principali sono riconoscibili: il Liside di Platone, l’Etica Nicomachea di Aristotele (che dedica due libri interi alla philia), la dottrina stoica che lega indissolubilmente l’amicizia alla virtù del saggio, e, per via negativa, la teoria epicurea, che Cicerone critica aspramente per aver fondato l’amicizia sulla ricerca dell’utile (utilitas) e del piacere.
Tuttavia, definire Cicerone un semplice compilatore o traduttore sarebbe un grave errore. La sua operazione è molto più complessa e originale: egli compie una vera e propria “romanizzazione” della filosofia greca. Il concetto greco di philia, per quanto nobile, viene riforgiato e calato nella realtà sociale e politica di Roma, diventando amicitia. Questo non è un semplice cambio di vocabolo. L’amicitia romana è un’istituzione sociale e quasi giuridica, permeata da valori specifici del mos maiorum come la fides (la lealtà, la fede data che ha quasi valore contrattuale), l’officium (il dovere reciproco) e la gravitas (la serietà e il peso morale). Cicerone prende l’ideale etico astratto dei Greci e lo ancora alla prassi della vita aristocratica romana. Termini come benevolentia (un attivo “volere il bene” dell’altro) e caritas (un affetto che implica stima e valore) arricchiscono il concetto di sfumature che non sono una semplice traduzione dei termini greci. In questo modo, Cicerone non è un ricettore passivo, ma un traduttore culturale attivo, che crea un concetto ibrido, filosoficamente sofisticato ma al tempo stesso pragmaticamente adatto alla vita e alla mentalità di un uomo di stato romano.
Sezione II: Testo Latino a Fronte e Traduzione Italiana Ragionata
2.1. Nota al Testo Latino
Il testo latino qui presentato si basa sulle edizioni critiche di riferimento, principalmente quelle di K. Simbeck (Teubner) e M. Winterbottom (Oxford Classical Texts). Si è tenuto conto delle principali lezioni dei manoscritti e delle congetture degli editori per offrire un testo il più possibile affidabile. La traduzione a fronte non si propone come un calco letterale, ma come una “traduzione ragionata”. L’obiettivo è restituire in un italiano moderno, chiaro ed elegante, non solo il significato letterale, ma anche la struttura complessa della prosa ciceroniana, il suo ritmo, le sue figure retoriche e la solennità del suo tono. Le scelte lessicali per i termini chiave (virtus, honestas, utilitas, caritas, benevolentia) sono state mantenute coerenti lungo tutto il testo per permettere al lettore di seguire lo sviluppo del pensiero filosofico.
2.2. Testo e Traduzione
| Testo Latino Originale (M. Tulli Ciceronis Laelius de Amicitia) | Traduzione Italiana Ragionata |
| 1. Q. Mucius augur multa narrare de C. Laelio socero suo memoriter et iucunde solebat nec dubitare illum in omni sermone appellare sapientem. Ego autem a patre ita eram deductus ad Scaevolam sumpta virili toga, ut, quoad possem et liceret, a senis latere numquam discederem. Itaque multa ab eo prudenter disputata, multa etiam breviter et commode dicta memoriae mandabam fierique studebam eius prudentia doctior. Quo mortuo, me ad pontificem Scaevolam contuli, quem unum nostrae civitatis et ingenio et iustitia praestantissimum audeo dicere. Sed de hoc alias; nunc redeo ad augurem. | 1. Quinto Mucio l’augure era solito raccontare a memoria e con piacere molti aneddoti su suo suocero, Gaio Lelio, e non esitava a chiamarlo “il Saggio” in ogni discorso. Io, d’altronde, dopo aver indossato la toga virile, fui condotto da mio padre da Scevola con l’impegno che, per quanto mi fosse possibile e concesso, non mi allontanassi mai dal fianco dell’anziano maestro. E così, affidavo alla memoria molte delle sue sagge dissertazioni e molte delle sue massime, concise ed efficaci, e mi sforzavo di diventare più dotto grazie alla sua sapienza. Dopo la sua morte, mi rivolsi a Scevola il pontefice, che oso definire il cittadino più illustre della nostra città per ingegno e senso di giustizia. Ma di lui parlerò un’altra volta; ora torno all’augure. |
| 2. Cum saepe multa, tum memini domi in hemicyclio sedentem, ut solebat, cum et ego essem una et pauci admodum familiares, in eum sermonem illum incidere qui tum fere multis erat in ore. Meministi enim profecto, Attice, et eo magis quod P. Sulpicio utebare multum, cum is tribunus plebis capitali odio a Q. Pompeio, qui tum consul erat, dissideret, quocum coniunctissime et amantissime vixerat, quanta esset hominum vel admiratio vel querella. | 2. Ricordo che un giorno, tra i tanti discorsi, mentre sedeva come al solito nell’emiciclo di casa sua, ed io ero presente insieme a pochi altri intimi, egli finì per parlare di un argomento che allora era sulla bocca di molti. Tu, Attico, certamente lo ricordi, tanto più che frequentavi assiduamente Publio Sulpicio: quando questi, da tribuno della plebe, entrò in conflitto mortale con Quinto Pompeo, allora console, con il quale era vissuto nel modo più stretto e affettuoso, quale non fu lo stupore o il lamento della gente. |
| 3. Itaque tum Scaevola, cum in eam ipsam mentionem incidisset, exposuit nobis sermonem Laeli de amicitia habitum ab illo secum et cum altero genero, C. Fannio, M. f., paucis diebus post mortem Africani. Eius disputationis sententias memoriae mandavi, quas hoc libro exposui arbitratu meo; quasi enim ipsos induxi loquentes, ne ‘inquam’ et ‘inquit’ saepius interponerentur, atque ut tamquam a praesentibus sermo haberetur. | 3. E così, in quell’occasione, Scevola, caduto il discorso proprio su quell’argomento, ci espose il dialogo sull’amicizia che Lelio aveva tenuto con lui e con l’altro suo genero, Gaio Fannio figlio di Marco, pochi giorni dopo la morte dell’Africano. Ho affidato alla memoria i concetti di quella discussione, e li ho esposti in questo libro a modo mio. Ho infatti introdotto i personaggi come se parlassero in prima persona, per evitare di inserire troppo spesso “dico io” e “dice lui”, e perché il dialogo sembrasse svolgersi come tra persone presenti. |
| 4. Cum enim saepe mecum ageres ut de amicitia scriberem aliquid, digna mihi res cum omnium cognitione tum nostra familiaritate visa est. Itaque feci non invitus ut prodessem multis rogatu tuo. Sed ut in Catone Maiore, qui est scriptus ad te de senectute, Catonem induxi senem disputantem, quia nulla videbatur aptior persona quae de illa aetate loqueretur quam eius qui et diutissime senex fuisset et in ipsa senectute praeter ceteros floruisset, sic, cum accepissemus a patribus maxime memorabilem C. Laeli et P. Scipionis amicitiam fuisse, apta videri potuit Laeli persona quae de amicitia ea ipsa dissereret quae ab Scaevola audita memineramus. | 4. Poiché mi hai spesso esortato a scrivere qualcosa sull’amicizia, l’argomento mi è parso degno sia dell’attenzione di tutti, sia della nostra familiarità. Pertanto, l’ho fatto non controvoglia, per essere utile a molti su tua richiesta. Ma come nel Catone Maggiore, che ho scritto per te sulla vecchiaia, ho introdotto Catone a discutere da anziano, poiché nessuna figura sembrava più adatta a parlare di quella età di colui che era stato vecchio più a lungo di tutti e che proprio nella vecchiaia si era distinto più degli altri, così, avendo appreso dai nostri antenati che l’amicizia tra Gaio Lelio e Publio Scipione era stata la più memorabile, la figura di Lelio poteva sembrare la più adatta a esporre sull’amicizia proprio quei concetti che ricordavo di aver udito da Scevola. |
| 5. Genus autem hoc sermonum positum in hominum veterum auctoritate, et eorum illustrium, plus nescio quo pacto videtur habere gravitatis. Itaque ipse mea legens sic afficior interdum ut Catonem, non me, loqui existimem. Sed ut tum ad senem senex de senectute, sic hoc libro ad amicum amicissimus de amicitia scripsi. Tum est Cato locutus, quo erat nemo fere senior temporibus illis, nemo prudentior; nunc Laelius et sapiens (sic enim est habitus) et amicitiae gloria excellens de amicitia loquitur. Tu velim a me animum parumper avertas, Laelium loqui ipsum putes. C. Fannius et Q. Mucius ad socerum veniunt post mortem Africani; ab his sermo oritur, respondet Laelius, cuius tota disputatio est de amicitia, quam legens te ipse cognosces. | 5. D’altronde, questo genere di dialoghi, fondato sull’autorità di uomini del passato, e per di più illustri, sembra avere, non so come, un peso maggiore. E così, io stesso, leggendo i miei scritti, a volte mi sento così coinvolto da credere che sia Catone a parlare, e non io. Ma come allora scrissi da vecchio a un vecchio sulla vecchiaia, così in questo libro ho scritto da amico devotissimo a un amico sull’amicizia. Allora parlò Catone, del quale ai suoi tempi quasi nessuno fu più anziano, nessuno più saggio; ora è Lelio, saggio (così infatti era considerato) ed eccellente per la gloria della sua amicizia, a parlare dell’amicizia. Vorrei che tu per un poco distogliessi la mente da me, e immaginassi che sia Lelio stesso a parlare. Gaio Fannio e Quinto Mucio si recano dal suocero dopo la morte dell’Africano; da loro prende avvio il discorso, risponde Lelio, la cui intera dissertazione è sull’amicizia. Leggendola, riconoscerai te stesso. |
| … | … |
| 20. Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio; qua quidem haud scio an, excepta sapientia, nihil melius homini sit a dis immortalibus datum. Divitias alii praeponunt, bonam alii valetudinem, alii potentiam, alii honores, multi etiam voluptates. Beluarum hoc quidem extremum, illa autem superiora caduca et incerta, posita non tam in consiliis nostris quam in fortunae temeritate. Qui autem in virtute summum bonum ponunt, praeclare illi quidem, sed haec ipsa virtus amicitiam et gignit et continet, nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest. | 20. L’amicizia, infatti, non è altro che un accordo su tutte le cose divine e umane, unito a un sentimento di benevolenza e di affetto; e non so se, ad eccezione della saggezza, gli dèi immortali abbiano dato all’uomo nulla di meglio. Alcuni le antepongono le ricchezze, altri la buona salute, altri il potere, altri le cariche onorifiche, molti anche i piaceri. Quest’ultima è una cosa da bestie, mentre i beni precedenti sono caduchi e incerti, posti non tanto nelle nostre decisioni quanto nel capriccio della sorte. Coloro poi che pongono il sommo bene nella virtù, fanno benissimo; ma è proprio questa virtù che genera e mantiene l’amicizia, e senza virtù l’amicizia non può in alcun modo esistere. |
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| 27.…principium autem amicitiae, ut dixi, a natura quam ab imbecillitate gravius et verius. Si enim utilitas conglutinaret amicitias, eadem commutata dissolveret; sed quia natura mutari non potest, idcirco verae amicitiae sempiternae sunt. Oritur autem amicitia, ut dixi, ex natura, non ex inopia. | 27.…il fondamento dell’amicizia, come ho detto, deriva dalla natura piuttosto che dalla debolezza, ed è più solido e più vero. Se infatti fosse l’utilità a cementare le amicizie, la stessa utilità, una volta mutata, le dissolverebbe; ma poiché la natura non può mutare, per questo le vere amicizie sono eterne. L’amicizia nasce dunque, come ho detto, dalla natura, non dal bisogno. |
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| 80. Saepe enim excellentiae quaedam sunt, qualis erat Scipionis in nostro, ut ita dicam, grege. Numquam igitur est ab hoc amicitia retenta, numquam officio, numquam studio; multa in omnes, multa in nos, in quemvis multa contra vim, contra iniuriam, pro re, pro fide, pro existimatione sociorum et amicorum. Quid dicam de moribus facillimis, de pietate in matrem, liberalitate in sorores, bonitate in suos, iustitia in omnes? Nota sunt vobis. Quam autem civitati carus fuerit, maerore funeris indicatum est. Quid igitur hunc paucorum annorum accessio iuvare potuisset? Senectus enim quamvis non sit gravis, ut memini Catonem anno ante quam est mortuus mecum et cum Scipione disserere, tamen aufert eam viriditatem in qua etiamnum erat Scipio. | 80. Spesso infatti ci sono delle eccellenze, come quella di Scipione nel nostro, per così dire, gruppo. Mai dunque da parte sua l’amicizia fu trascurata, mai il dovere, mai l’impegno; molte cose fece per tutti, molte per noi, per chiunque molte contro la violenza, contro l’ingiustizia, in difesa dei beni, della lealtà, della reputazione di alleati e amici. Che dire del suo carattere affabilissimo, della sua devozione verso la madre, della generosità verso le sorelle, della bontà verso i suoi, della giustizia verso tutti? Vi sono cose note. Quanto poi fosse caro alla città, lo ha dimostrato il dolore ai suoi funerali. Che vantaggio avrebbe potuto dunque trarre dall’aggiunta di pochi anni? La vecchiaia, infatti, sebbene non sia un peso, come ricordo che Catone discuteva con me e con Scipione un anno prima di morire, toglie tuttavia quel vigore nel quale Scipione ancora si trovava. |
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| 104. Haec habui de amicitia quae dicerem. Vos autem hortor ut ita virtutem locetis, sine qua amicitia esse non potest, ut ea excepta nihil amicitia praestabilius putetis. | 104. Questo avevo da dire sull’amicizia. Vi esorto, d’altra parte, a porre la virtù in così alta considerazione – giacché senza di essa l’amicizia non può esistere – da ritenere che, ad eccezione della virtù stessa, nulla sia più eccellente dell’amicizia. |
(Nota: Per ragioni di brevità, si riportano solo alcuni passaggi significativi. Il testo completo e la traduzione seguirebbero questo modello per tutti i 104 paragrafi dell’opera).
Sezione III: Disamina Critica e Commento Filologico-Filosofico
3.1. Proemio e Impostazione del Dialogo (§1-16)
I primi paragrafi del Laelius sono un capolavoro di costruzione retorica, volti a stabilire l’autorevolezza del discorso che seguirà. Cicerone utilizza una strategia di “mediazione a catena”: egli, l’autore, ha appreso la dottrina da Quinto Mucio Scevola l’Augure, il quale a sua volta l’aveva ascoltata direttamente dal suocero Gaio Lelio. Questo espediente non solo conferisce un’aura di venerabile antichità al discorso, ma lo ancora a una tradizione orale autentica, trasmessa da uomini di specchiata virtù. L’ambientazione drammatica, pochi giorni dopo la morte di Scipione Emiliano, carica il dialogo di pathos e urgenza. La richiesta di Fannio e Scevola a Lelio di esporre la sua visione sull’amicizia non è una curiosità intellettuale, ma una necessità esistenziale: come si può sopportare la perdita di un amico così grande? La risposta di Lelio sarà la risposta della filosofia alla fragilità della vita.
3.2. La Definizione e l’Origine dell’Amicizia (§17-32)
Il cuore teorico del trattato si manifesta nella celebre definizione di amicizia, esposta nel paragrafo 20: “est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio“. L’analisi di questa frase rivela i pilastri del pensiero ciceroniano. Non si tratta di una semplice affinità emotiva. Il primo elemento è il consensio, un “accordo” che non è mera identità di opinioni, ma una profonda sintonia di valori, giudizi e volontà riguardo a tutto ciò che conta nella vita, sia nella sfera pubblica (res humanae) sia in quella privata e morale (res divinae). A questo elemento intellettuale e volitivo si uniscono due componenti affettive: la benevolentia, un desiderio attivo e razionale del bene dell’altro, e la caritas, un affetto profondo, una stima che rende l’amico “caro”, prezioso.
Subito dopo, Cicerone affronta la questione dell’origine dell’amicizia, schierandosi con decisione contro le teorie utilitaristiche. L’amicizia, egli sostiene, non nasce dal bisogno (indigentia) o dalla debolezza (imbecillitas), ma dalla natura stessa (natura). Più precisamente, essa scaturisce dalla percezione della virtù (virtus) in un’altra persona. È la luce della virtù che attrae un’anima virtuosa verso un’altra, creando un legame spontaneo e disinteressato. L’amicizia non è un contratto per ottenere vantaggi, ma un’inclinazione naturale degli uomini buoni a unirsi ad altri uomini buoni.
3.3. La Critica alle Teorie Utilitaristiche (§33-55)
La polemica contro le filosofie, in particolare quella epicurea, che riconducono l’amicizia alla ricerca dell’utilitas è uno dei fili conduttori del dialogo. Cicerone argomenta che fondare l’amicizia sull’utilità significa minarne le fondamenta. Se il legame è cementato dal vantaggio, esso è destinato a dissolversi non appena il vantaggio cessa o muta. Una tale “amicizia” sarebbe precaria, opportunistica e, in ultima analisi, falsa.
Tuttavia, il pensiero di Cicerone sull’utilità è più sofisticato di quanto una semplice condanna possa suggerire. Egli non nega che l’amicizia porti immensi vantaggi. Al contrario, lungo tutto il trattato elenca i benefici pratici che ne derivano: il conforto nel dolore, il consiglio nelle difficoltà, il sostegno nella vita politica, la possibilità di avere un “secondo sé” (alter ego) con cui condividere ogni cosa. Il punto cruciale, però, risiede nella relazione causale. Per gli epicurei, la sequenza è: Bisogno → Ricerca di Utilità → Amicizia. Per Cicerone, la sequenza è invertita e moralmente superiore: Percezione della Virtù → Amicizia → Utilità (come conseguenza naturale e benedetta, non come scopo primario). In questo modo, Cicerone riesce a conciliare l’idealismo filosofico con il pragmatismo romano. Egli può difendere un ideale nobilissimo di amicizia disinteressata senza apparire ingenuo riguardo ai suoi enormi benefici pratici e politici. L’utilitas, quindi, non è il motivo dell’amicizia, ma la sua felice conseguenza.
3.4. Le Regole e i Limiti dell’Amicizia (§56-78)
Il Laelius non è solo un’opera teorica, ma anche una guida pratica alla condotta amicale. Cicerone, per bocca di Lelio, enuncia una serie di “leggi” o precetti che devono governare il rapporto tra amici. La prima e più importante di queste leggi è che l’onestà è un limite invalicabile: “Haec igitur prima lex amicitiae sanciatur, ut ab amicis honesta petamus, amicorum causa honesta faciamus” (“Si stabilisca dunque questa come prima legge dell’amicizia: chiedere agli amici cose oneste, e fare per gli amici cose oneste”). L’amicizia non può mai essere una giustificazione per compiere azioni turpi o dannose per la patria. Un vero amico non chiederebbe mai una cosa simile, e un vero amico si rifiuterebbe di farla. Altre regole includono la necessità della franchezza e della sincerità, anche quando la verità è sgradevole, e l’importanza di evitare l’adulazione, che è il veleno di ogni rapporto autentico.
3.5. La Fine dell’Amicizia e la Conclusione (§79-104)
Con realismo, Cicerone riconosce che le amicizie possono finire. Le cause possono essere molteplici: un cambiamento nel carattere, una divergenza insanabile negli interessi (specialmente in politica), o la scoperta di un comportamento disonesto. Anche in questi casi, suggerisce Lelio, è preferibile che le amicizie si “sciolgano” gradualmente (dissuendae) piuttosto che “spezzarsi” di netto (discindendae), per evitare che si trasformino in inimicizie. La conclusione del dialogo ritorna al punto di partenza: la morte dell’amico. Lelio afferma di trovare consolazione non nel pensiero che Scipione non soffra più, ma nella memoria viva della sua virtù. L’amico non muore veramente, perché la sua virtù, che era il fondamento dell’amicizia, è immortale e continua a vivere nel ricordo e nell’imitazione di chi resta. L’amico è un modello, un alter ego, e la sua scomparsa fisica non annulla il legame spirituale. Questa è la suprema consolazione che la filosofia offre: l’amicizia, fondata sulla virtù, vince la morte.
Sezione IV: I Pilastri dell’Amicizia Ciceroniana: Virtus, Utilitas e Consensus
4.1. Virtus come Condicio Sine Qua Non
Il concetto di virtus è la chiave di volta dell’intero edificio teorico di Cicerone. Senza virtù, l’amicizia non può esistere. È importante capire cosa Cicerone intenda con questo termine. Non si tratta di una perfezione morale astratta e irraggiungibile, come quella del saggio stoico. La virtus ciceroniana è l’insieme delle qualità che definiscono il vir bonus, l’uomo perbene e il buon cittadino romano: l’honestas (l’integrità morale), la fides (la lealtà), la fortitudo (il coraggio), la prudentia (la saggezza pratica). L’amicizia, in questa prospettiva, è il luogo privilegiato in cui questa virtù viene riconosciuta, praticata e rafforzata. È un rapporto tra pari in eccellenza morale, un mutuo specchiarsi e incoraggiarsi sulla via del bene.
4.2. La Dialettica tra Amicitia e Utilitas
Come analizzato in precedenza, Cicerone risolve l’apparente conflitto tra l’idealismo dell’amicizia e il pragmatismo dell’utilitas attraverso una ridefinizione di quest’ultima. La vera utilità non risiede nei vantaggi materiali o nel guadagno personale, che sono precari e moralmente ambigui. La vera e suprema utilità dell’amicizia è di natura morale, psicologica e politica. È l’utilità di avere qualcuno che ci migliora, che ci consiglia con sincerità, che ci sostiene nelle avversità, che raddoppia le nostre gioie e dimezza i nostri dolori. Per un uomo di stato romano, è l’utilità di poter contare su alleati leali e fidati per il bene della res publica. In questo senso, l’amicizia basata sulla virtù non è solo la più nobile, ma anche, in ultima analisi, la più utile.
4.3. Consensus e il suo Significato Politico
Il termine consensio, che appare nella definizione centrale del trattato, va oltre il semplice accordo tra due individui. Esso assume una profonda valenza politica, collegandosi direttamente a uno degli ideali politici più cari a Cicerone: il consensus omnium bonorum, ovvero l’accordo di tutti i cittadini onesti e benpensanti. Questo era, per Cicerone, il fondamento su cui si sarebbe dovuta reggere la repubblica per resistere alle spinte disgregatrici dei demagoghi e degli ambiziosi. L’amicizia tra due boni viri, basata su un consensus di valori e intenti, diventa così il modello in scala ridotta, il laboratorio in cui si sperimenta e si costruisce quel più ampio consenso politico necessario alla salute dello Stato. L’amicizia non è una fuga dalla politica, ma la sua cellula fondamentale e la sua più alta espressione.
Tabella 1: Confronto tra le Concezioni dell’Amicizia nella Filosofia Antica
| Caratteristica | Peripatetica (Aristotele) | Stoica (Cicerone) | Epicurea |
| Origine | Natura (l’uomo è animale sociale). Si manifesta in tre forme: basata sul piacere, sull’utilità e sulla virtù. | Natura e percezione della virtù. Rifiuto dell’origine dal bisogno. | Bisogno di sicurezza e ricerca del piacere (atarassia). |
| Scopo Principale | Vivere bene (eudaimonia). L’amicizia virtuosa è esercizio della virtù stessa. | Esercizio della virtù e raggiungimento del sommo bene. | Ottenere vantaggi e piacere, garantendo una vita serena e priva di turbamenti. |
| Ruolo dell’Utilitas | Fondamento di una delle forme inferiori di amicizia. Nell’amicizia virtuosa è una conseguenza. | Conseguenza e prodotto secondario, mai il motivo originario. | Motivo fondamentale e originario. L’amicizia è strumentale all’utilità. |
| Stabilità | Solo l’amicizia basata sulla virtù è stabile e duratura. Le altre sono accidentali e precarie. | Solo la vera amicizia (vera amicitia) tra virtuosi è eterna, perché la natura e la virtù non mutano. | Instabile. Dura finché è utile e piacevole. Può essere sciolta se la convenienza cessa. |
| Amicizia con i malvagi | Impossibile nella sua forma più alta (basata sulla virtù). Possibile nelle forme inferiori. | Impossibile. L’amicizia può esistere solo tra boni viri. | Possibile, a patto che porti un vantaggio o un piacere. |
Sezione V: L’Eredità del De Amicitia: La Sua Risonanza da Sant’Agostino al Rinascimento e Oltre
5.1. L’Assimilazione Cristiana: Ambrogio e Agostino
La straordinaria fortuna del De Amicitia inizia già nell’antichità tardiva, quando il suo quadro etico viene assimilato e adattato dal pensiero cristiano. I Padri della Chiesa, educati alla scuola dei classici, videro in Cicerone un “pagano virtuoso” le cui intuizioni morali potevano essere “battezzate” e integrate in una visione cristiana. Sant’Ambrogio, nel suo De Officiis Ministrorum, si ispira direttamente al De Officiis ciceroniano, ma il modello dell’amicizia virtuosa del Laelius è onnipresente. L’operazione consiste nel sostituire la virtus romana, incentrata sul cittadino e sullo Stato, con la caritas cristiana, l’amore agapico che ha la sua fonte e il suo fine in Dio. L’amicizia ciceroniana viene così trasformata in un modello per la fratellanza spirituale tra i membri della comunità cristiana. Anche Sant’Agostino, nelle Confessioni, riflette profondamente sulla natura dell’amicizia, riecheggiando temi ciceroniani ma trasponendoli su un piano teologico: la vera amicizia è possibile solo “in Dio”, Colui che unisce i cuori in un legame indissolubile.
5.2. La Riscoperta Umanistica: Petrarca e il Rinascimento
Se il Medioevo conobbe e apprezzò Cicerone, fu con l’Umanesimo e il Rinascimento che il De Amicitia conobbe la sua massima popolarità. Per intellettuali come Francesco Petrarca, Cicerone rappresentava il modello perfetto dell’uomo di cultura che era anche un cittadino attivo, un ideale che gli umanisti cercavano di far rivivere. In un’epoca che riscopriva la centralità dell’uomo, il trattato ciceroniano offriva una base per un’etica secolare, non necessariamente in conflitto con la fede, ma autonoma e fondata sulla dignità umana. L’amicizia, intesa come legame elettivo basato sulla comunanza di studi, di virtù e di ideali, divenne un valore cardine della cultura umanistica. Le accademie che fiorirono in Italia e in Europa erano, in un certo senso, la reincarnazione del Circolo degli Scipioni, luoghi dove l’amicizia e il sapere si alimentavano a vicenda.
5.3. L’Amicizia Moderna: Da Montaigne all’Illuminismo
L’influenza del Laelius prosegue nell’età moderna, trovando un interprete d’eccezione in Michel de Montaigne. Il suo celebre saggio “Sull’amicizia” (De l’amitié), dedicato al legame unico e totalizzante con Étienne de La Boétie, è un dialogo ininterrotto con Cicerone. Montaigne riprende la distinzione ciceroniana tra amicizie comuni e l’unica, vera amicizia, ma la porta a un livello di introspezione personale e di radicalità senza precedenti. Se per Cicerone l’amicizia è una fusione di due anime simili, per Montaigne è una fusione così completa che l’io quasi si annulla nell’altro (“Perché era lui, perché ero io”). Anche nel pensiero illuminista, l’ideale ciceroniano continua a risuonare: l’amicizia viene vista come un legame razionale e virtuoso tra cittadini liberi, fondamento di una società giusta e trasparente.
La perenne vitalità del De Amicitia non risiede nella venerazione statica di un testo antico, ma nella sua straordinaria capacità di essere continuamente riletto e riadattato. Ogni epoca storica non si è limitata a leggere il trattato, ma lo ha, in un certo senso, riscritto per rispondere alle proprie esigenze ideologiche. I concetti portanti dell’opera – virtus, consensus, natura – possiedono un grado di astrazione e una potenza tali da poter essere riempiti con significati sempre nuovi. Per i Padri della Chiesa, la virtus divenne la fede e la caritas cristiana. Per gli umanisti, divenne la cultura e l’eccellenza umana. Per Montaigne, divenne un’esperienza esistenziale quasi mistica. L’eredità del De Amicitia è dunque quella di un dialogo continuo attraverso i secoli, un processo di riappropriazione culturale che dimostra la genialità e la profondità universale del pensiero di Cicerone. La sua influenza non è dovuta alla semplice trasmissione di idee, ma alla loro feconda traducibilità, che ha permesso a ogni generazione di trovare uno specchio per i propri valori più alti nella prosa senza tempo di questo piccolo, ma immenso, capolavoro.
Perplexity:
