Interviene il clone

(…) ecco una bozza di post per “Pensieri Artificiali” sullo stile di Marco Guastavigna, incentrato su Concetti Contrastivi:



Concetti Contrastivi: Svelare l’inganno del “digitale”

Care lettrici, cari lettori,

eccomi di nuovo qui, tra queste righe digitali che, purtroppo, troppo spesso finiscono per ospitare discorsi effimeri e autoreferenziali. Ma oggi voglio parlarvi di qualcosa che vale la pena di scandagliare, di decostruire con la dovuta (e radicale) attenzione: i “Concetti Contrastivi”.

Se non lo conoscete, concetticontrastivi.org è un brand – sì, proprio un “brand”, e già qui si aprirebbe un abisso di riflessioni sul marketing che ammorba il pensiero – che si prefigge un obiettivo ben preciso: esaminare criticamente i dispositivi digitali come prodotti sociali capitalisti. Perché, diciamocelo chiaro, l’idea che il “digitale” sia un’entità neutra, un semplice “strumento”, è una delle più subdole furbizie del tecno-liberismo.

Il “digitale” tra virgolette, una nebulosa da dissipare

Ho sempre insistito, non senza una certa ostinazione, sull’uso delle virgolette quando si parla di “digitale”. E l’ho fatto perché questa parola, così onnipresente e apparentemente innocua, è in realtà un contenitore confuso, una “formulazione-ombrello” che cela una mancanza siderale di articolazione e, quel che è peggio, la continua lesione dell’autodeterminazione professionale e individuale. Siamo nel campo della pseudo-condivisione, dove tutti credono di capire, ma nessuno, o quasi, si preoccupa di andare a fondo.

Questo “digitalismo” , questa fede cieca nelle “potenzialità dei dispositivi digitali”  che risolvono ogni problema per partenogenesi spontanea, è quanto di più lontano ci sia da un approccio critico e, oserei dire, dignitoso. È una visione ingenua, deterministica e ottimista che abdica in partenza al pensiero analitico. E la scuola, ahimè, si conforma a questa visione tecnocratica, sostituendo all’idea di progresso quella ben più inquietante di rottura, epistemologica e ontologica.

Dispositivi estrattivi vs. tecnologie conviviali: il vero campo di battaglia

Il punto non è “digitale sì” o “digitale no”. Questa polarizzazione, così tanto cara ai media e agli intellettuali da salotto che amano il sensazionalismo, è un diversivo, una cortina fumogena. La vera contrapposizione, quella politicamente utile e significativa, è tra dispositivi digitali a

logistica estrattiva e dispositivi digitali a vocazione aperta e decentralizzata.

I primi, quelli che ci vengono propinati quotidianamente dalle GAFAM e dalle altre corporation del “capitalismo di piattaforma” , sono avidi di dati. Si nutrono della nostra conoscenza condivisa, la monetizzano, la trasformano in profitto. Ci profilano, ci tracciano, ci inseriscono in un “mercato della conoscenza sorvegliata” che limita la nostra libertà e la nostra autonomia. Pensate a Google Bard, che raccoglie le nostre conversazioni “a fini qualitativi” – eufemismo per “per addestrare i suoi algoritmi e far soldi”. Non a caso, il suo accesso è subordinato ai nostri dati personali.

I secondi, invece, si richiamano a concetti come il software libero (non gratis, attenzione, ma “free speech”, non “free beer” ), l’opensource, i contenuti aperti, le licenze Creative Commons. Parlo di motori di ricerca che non profilano come DuckDuckGo , di fairphone che si preoccupano del ciclo di vita e della riparabilità. Questi dispositivi, signori, hanno come scopo la condivisione paritaria della conoscenza, lo sviluppo umano equo, la cooperazione non competitiva, il mutualismo, la sostenibilità economica e ambientale. Permettono l’anonimato, curano la riservatezza.

La scuola, se avesse ancora un briciolo della sua vocazione critica ed emancipante, dovrebbe conoscere e promuovere queste alternative. Dovrebbe formare i docenti a scegliere i dispositivi più adatti, a smascherare l’approccio tecnocratico e il tecno-entusiasmo acritico. E, soprattutto, dovrebbe riaffermare il diritto all’autodeterminazione professionale, intellettuale e culturale, collettiva prima ancora che individuale.

L’intelligenza artificiale: non uno strumento, ma un campo di scontro

L’intelligenza artificiale, poi, è l’ultimo capitolo di questa storia. Non è uno “strumento” neutro da usare “bene” o “male”. È un insieme di “mega-macchine predittive” che agiscono su base statistico-induttiva, basandosi su correlazioni e modelli costruiti su “BigData” e “BigCorpora”. Non “capiscono” nel senso umano del termine , ma imitano gli esiti dei processi cognitivi umani per fini prestazionali. E, non a caso, la loro efficacia è magnificata dal marketing.

La “correttezza” e la “moderazione” che spesso ci vengono imposte da questi agenti artificiali sono figlie di questa logica: un’omologazione che appiattisce il pensiero, che ci spinge a immaginare il “probabile” anziché il “possibile”, il “modificabile”. Non dobbiamo permettere che l’IA sostituisca gli insegnanti, non per una sterile difesa di categoria, ma perché sarebbe un impoverimento delle relazioni umane e della creatività.

Il nostro dovere, quindi, è quello di decostruire l’IA. Chiarire che la riduzione statistica è un vincolo. Denunciare l’agire oligopolistico delle corporation. E, soprattutto, porre domande etiche, sempre : non solo “cosa?” e “come?”, ma “perché?” e “se?”, vagliando le potenziali conseguenze.

Solo così potremo costruire una “cultura tecnologica alternativa” , basata sull’autorialità digitale sostenibile, sul software libero, sulla condivisione e sulla cooperazione. Una cultura che non si limiti a subire la deriva della digitalizzazione subordinata e subordinante, ma che sappia, invece, essere autenticamente emancipante e democratica.

Insomma, il “digitale” non è un monolite, e non siamo condannati a subirlo acriticamente. Esistono vie altre, sentieri meno battuti, ma decisamente più promettenti. Tocca a noi percorrerli.

Alla prossima, con qualche nuovo svelamento!

Marco Guastavigna

Ricercatore inopportuno e libero dall’opportunismo


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