Pensieri artificiali non può negare il proprio contributo ai salotti della governance dell’istruzione.
Abbiamo perciò chiesto di esprimersi a Tastiera Abrasiva, nickname di un collaboratore che vuole restare sullo sfondo, anche se qualcuno lo riconoscerà nella foto di classe che ha allegato al pezzo inviato in redazione.

Ah, la scuola. Un tema che, come il tempo inclemente o l’inflazione galoppante, ci assilla da decenni, mutando forma ma mai sostanza nel suo incedere verso il baratro dell’insignificanza. Mi viene quasi da sorridere, un ghigno amaro, s’intende, pensando a quanti, nel corso della mia lunga e tediosa esistenza, si siano cimentati nell’impresa titanica di dissezionare il cadavere fumante del nostro sistema formativo. E ogni volta, giuro, è la stessa scena: un coro di Cassandre, più o meno illustri, che intonano il lamento funebre, con sfumature diverse ma un unico, raggelante ritornello: “È finita, è tutto perduto!”. Persino il buon Cacciari, filosofo di chiara fama e volto noto tra gli intellettuali che ancora si ostinano a pensare, ci ha deliziato, sulle pagine del quotidiano che ancora osa stamparsi, con la sua analisi impietosa. E cosa scopriamo? Che la scuola è oppressa dalla burocrazia, ingessata in un metodologismo astratto, che misura il successo formativo con la stessa scientificità con cui un astrologo predice la Borsa. Insomma, un’apocalisse annunciata, un copione già visto e rivisto, eppure, a ogni replica, ci coglie impreparati, come se la tragedia fosse una novità assoluta. Difficile dargli torto, intendiamoci. Il pessimismo, a una certa età, non è più una scelta, ma una condizione esistenziale, un’occhialata permanente con lenti graduate per la desolazione.
Eppure, a me, che ho attraversato i lustri come un sopravvissuto a un naufragio, questa cantilena sul sistema formativo provoca un sussulto, una fitta quasi nostalgica. Nostalgia di cosa, direte voi? Delle aule polverose, dei professori attempati con le loro giacche di tweed e l’alito al fumo di sigaro? No, non proprio. La verità, confessata qui, in questo confessionale di carta e inchiostro, è che provo una sorta di rimpianto per ciò che non ho vissuto. Per esempio, quella che fu la mia maturità, che maturità non fu mai per intero. La leggenda narra di esami di stato dove si interrogava su tutto, o quasi. Ma a noi, generazione di mezzo, a metà strada tra il rigore prussiano e l’anarchia liberatoria, toccò una maturità già monca, alleggerita, come un peso massimo messo a dieta ferrea. Due scritti e due orali su quattro materie sorteggiate. Quattro! Capite? Non sei, non otto, non tutte le gioie e i dolori di un quinquennio. Eravamo un po’ come i concorrenti di un gioco a premi dove la ruota della fortuna decideva il tuo destino culturale. Non ricordo un solo compagno, me incluso, che nell’ultimo anno abbia speso anche solo un grammo di neuroni su quelle discipline che la sorte, o l’arbitrio di qualche burocrate annoiato, aveva decretato irrilevanti. Geografia? Un lontano ricordo. Chimica? Un’entità misteriosa relegata ai libri impolverati. E mi chiedo, con l’acredine tipica di chi ha visto troppo e capito troppo poco: che giovinezza sia quella dove non si è costretti a confrontarsi con l’intero scibile umano, anche solo per il gusto, o la disperazione, di sentirsi del tutto inadeguati? Ah, la maturità con tutte le materie! Quel rito di passaggio dove il sapere ti investiva come un treno merci, dove l’ignoranza non poteva nascondersi dietro un sorteggio benevolo, dove la vera paura era l’ignoto, non il prevedibile. Che tempi sciagurati, i nostri, dove persino l’esame finale sembrava una gag mal riuscita.
Ma torniamo al punto, al marciume originario. Si parla di “sessantottismo”, un termine ormai logoro, buono per ogni stagione e ogni colpa. La riduzione di quelle che furono le rivendicazioni di una generazione, seppur ingenue e spesso pasticciate, a “volgarizzazioni” semplicistiche. Contestare il classismo, la selezione di classe, la distanza siderale tra cattedra e banchi. Tutte cose sacrosante, messe nero su bianco da un prete di campagna, Don Milani, con la sua celebre Lettera a una professoressa. Un testo che oggi, probabilmente, verrebbe etichettato come “disruptive” o “game-changer” da qualche guru del marketing, e che allora era semplicemente un grido disperato di giustizia. La scuola di Barbiana, con i suoi figli di contadini appenninici, studiando insieme, imparando l’italiano sui quotidiani e la Costituzione, la matematica sulle buste paga. Non era una soluzione, sia chiaro, ma uno spunto. Un sussulto. Una scintilla nel buio del modello gentiliano, che già allora aveva sulle spalle mezzo secolo di polvere e oggi, poveraccio, ne ha ben 102, e ancora resiste, come un dinosauro sopravvissuto all’estinzione, ma con il cervello di un moscerino.
Il punto non è il ’68, povero ’68, già troppo demonizzato e troppo santificato a seconda delle convenienze. Il punto fu l’incapacità, la codardia, la pigrizia della nostra classe dirigente della Prima Repubblica. Anziché una riforma seria, organica, coraggiosa, si optò per il metodo dello “sgombero pezzi”. Come un chirurgo maldestro che, anziché curare il cancro, amputa l’arto più vicino al dolore. Via il numero chiuso, ed ecco facoltà invase da orde di studenti, decuplicati, quadruplicati, che neanche un’invasione barbarica sarebbe stata così efficace nel distruggere le fondamenta. E con loro, in cattedra, senza selezione alcuna, giovani docenti, magari pure bravi, ma spesso privi di quell’esperienza, di quella saggezza, di quella patina di sapere che solo gli anni e la ricerca possono dare. E che, come per incanto, “bloccavano” la carriera a chi veniva dopo, creando una casta di precari perenni e di baroni inamovibili. Un capolavoro di miopia.
E poi, i test a crocette. Ah, i test a crocette! Il trionfo della pigrizia mentale, l’apoteosi dell’ignoranza mascherata da “obiettività”. Sono ancora qui a chiedermi, con un principio di ulcera, chi fu il genio che pensò di sostituire l’elaborazione organica del pensiero, la capacità di argomentare, di scrivere, di parlare, con una serie di X in un quadratino. Il risultato? Una generazione di lobotomizzati digitali, incapaci di connettere due idee in un discorso che superi i limiti di un tweet, di articolare un pensiero che non sia preconfezionato. È come se si fosse deciso che l’arte del ragionamento fosse un lusso superfluo, una frivolezza da tempi andati, quando si aveva ancora la decenza di leggere libri e non solo didascalie su Instagram. Eravamo già avviati sulla china scivolosa del declino, e i test a crocette, credetemi, sono stati il chiodo definitivo nella bara della nostra intelligenza collettiva. E la mia maturità, già sfortunata per il sorteggio, non ha avuto nemmeno il privilegio di sfuggire a questa deriva, preparandoci più all’efficienza burocratica che alla bellezza del sapere.
E non è finita qui, perché la nostra storia è un susseguirsi di tragedie comiche. Arriviamo alla riforma delle “tre i”: inglese, impresa, informatica. La Moratti, nel 2003, con un’intuizione degna di un politico che non ha mai messo piede in un’aula scolastica, decise che il futuro dei nostri giovani era nel mondo del lavoro. Certo, non nel mondo del sapere, sia mai! Bisognava preparare i futuri schiavi del capitale, pardon, i futuri “professionisti” in funzione del loro inserimento nel meccanismo produttivo. Tanta informatica, perché siamo nell’era digitale (e poi scopri che i laureati in informatica non vanno a insegnare a 1400 euro al mese, ma in aziende dove guadagnano il triplo, e che le scuole, povere loro, non hanno un soldo per i laboratori). Tanta impresa, con i suoi valori di efficientismo, tagli degli sprechi, flessibilità, crescita. Roba da manuale di economia spicciola, roba da slogan elettorale, ma che significato ha, nel concreto, “educare all’efficientismo”? Forse insegnare a correre più veloci per timbrare il cartellino, o a spremere il prossimo per un profitto maggiore?
E l’alternanza scuola-lavoro, un’altra di quelle trovate geniali che solo un burocrate può partorire. Ma quale imprenditore, mi chiedo con la furia di un vecchio orso, dovrebbe mai sobbarcarsi l’onere di formare gratuitamente dei ragazzini, distaccando a sue spese un dipendente? La scuola, per questi illuminati, non doveva essere il luogo della conoscenza, della curiosità intellettuale, della consapevolezza critica, della responsabilità sociale. No, doveva essere un’appendice del dipartimento risorse umane, un vivaio di manodopera a basso costo, già pronta all’uso, magari pure docile e senza grilli per la testa. E qui sta l’errore madornale, il peccato originale. La scuola non deve preparare al lavoro, ma alla vita. La vita, che certo, include il lavoro, ma che è fatta prima di tutto di cultura, di pensiero, di dubbi, di domande, di quella fame insaziabile di sapere che ci distingue dalle macchine e dagli automi.
Il risultato? Sotto gli occhi di tutti, anche di chi ha un solo occhio e l’altro bendato. La riforma delle “tre i” ha smantellato l’istruzione umanistica con la grazia di un elefante in cristalleria, senza sostituirla con alcunché di valido. Meno storia, meno filosofia, meno italiano. Un’infarinatura di impressioni generiche, come la definisce Cacciari, e come purtroppo constato ogni giorno, leggendo i temi dei miei nipotini che sembrano scritti da un algoritmo. Siamo passati dal Manzoni, con le sue disquisizioni sul libero arbitrio e la provvidenza, a un guazzabuglio di nozioni spicciole, senza capo né coda, che lasciano i giovani con l’anima e la mente vuota. E l’unica “i” davvero essenziale, l’inglese, la lingua franca del nostro tempo, continua ad essere insegnata come una lingua esotica, anziché come una seconda lingua sin dalle elementari. Un’altra occasione persa, un altro treno partito senza di noi, mentre noi, eterni ritardatari, continuiamo a discutere del colore dei binari.
Insomma, il quadro è desolante. Una scuola senza identità, senza anima, senza una direzione chiara. Un luogo dove si tagliano i pezzi, si liberalizzano gli accessi, si introducono test che premiano la superficialità, si smantella il pensiero critico in nome di un pragmatismo cieco e miope. E io, vecchio e stanco, che ho visto i gloriosi fasti di un’istruzione, seppur imperfetta, che ancora osava chiamarsi tale, non posso che constatare il disastro. E pensare, con un pizzico di malinconia autoironica, che forse, se fossi nato qualche decennio prima o dopo, avrei potuto affrontare la mia maturità con tutte le materie, con l’angoscia di non sapere nulla di tutto, anziché l’angoscia di sapere che avrei saputo solo quel poco che mi era stato sorteggiato. Un vero peccato. Avrei potuto, chissà, provare l’ebbrezza di un vero fallimento, di un’ignoranza onesta e completa, invece di questa mediocrità addomesticata che ci propinano oggi. E questo, amici miei, è il vero dramma: non tanto ciò che abbiamo perso, ma ciò che non abbiamo mai avuto il coraggio di vivere, nemmeno tra i banchi di scuola.
