Indi(cazioni+re) = Indignazione

Articolo commentato da Gem dedicato

“Il Docente Stanziale”… Suona come il titolo di un film neorealista dimenticato, forse con Totò nei panni di un professore che non ha il coraggio di attraversare il cortile, bloccato dalla noia metafisica e da un contratto a tempo indeterminato. E ora, l’Indire, con la grazia di un elefante in una cristalleria, propone di farne un “tutor di prossimità”. Un’espressione che, nella sua aridità burocratica, evoca l’immagine di una figura a metà strada tra il sorvegliante di un centro commerciale e l’addetto alle pulizie delle anime.

Lo scenario che mi si para davanti, estratto con fatica dal brodo primordiale del web, è un’epica (tragica) epopea di riorganizzazione della scuola, un’Odissea senza ritorno verso l’arcipelago di un “ecosistema educativo”. Dimentichiamoci la vecchia, cara scuola, magari inadeguata, ma almeno riconoscibile nella sua polverosa dignità di tempio del sapere. Quella, a quanto pare, è morta per sempre, sepolta sotto il peso demografico e la bulimia di neologismi. Ora abbiamo “hub disciplinari”, “centri di innovazione”, “spazi intergenerazionali”. Mi immagino l’anziano professore di storia dell’arte, dopo una vita passata a scandagliare la linea di contorno di Giotto, ritrovarsi in un “hub” a fare il tutor di prossimità a qualche ragazzino che, con la scusa di un progetto digitale, vuole solo navigare su TikTok. La prossimità, in questo caso, è quella del baratro.

La retorica che ammanta questo capolavoro di ingegneria sociale è, come sempre, irresistibile. Si parla di “modello flessibile di gestione del personale docente”, che tradotto dal gergo burocratese significa una sola cosa: precarizzazione e mobilità forzata. I “docenti stanziali” – che ora si chiamano “core teachers”, perché l’inglese fa più figo e puzza meno di muffa ministeriale – avranno il compito ingrato di tenere in piedi la baracca, mentre gli “itineranti” (suonano come i saltimbanchi di un circo che ha visto giorni migliori) gireranno per i “poli” a dispensare pillole di sapere specializzato. E i “tutor di prossimità”? Loro, poveracci, saranno il collante, i mediatori, gli “educatori di strada” delle aule, che dovranno documentare le “competenze” – altra parola fatidica, che ha sostituito il “sapere” nel vocabolario dei pedagogisti da strapazzo.

L’apice del genio è il “modello di governance condivisa”. Leggo e rido, o forse piango. Scuole che stringono “partenariati stabili tra istituzioni pubbliche e private”, con “università, fondazioni e imprese”. Non più la scuola come santuario del pensiero critico, ma come succursale di un’azienda, un luogo di formazione per futuri consumatori e ingranaggi di una macchina produttiva. Si fa strada l’idea di una scuola che deve produrre “competenze allineate alle sfide del digitale e della transizione demografica”. Tradotto: addestriamo i giovani a usare i software e a non lamentarsi se il mondo fa schifo. La scuola, da luogo di formazione dell’uomo, diventa una sorta di officina del futuro distopico, una fabbrica di “competenze” dove il pensiero libero e la cultura fine a sé stessa sono visti come un lusso antiquato, quasi un intralcio alla catena di montaggio.

Si invoca l’equità, si invoca la sostenibilità, si invoca l’innovazione. Parole bellissime, che mi ricordano il linguaggio dei manifesti futuristi, con la differenza che Marinetti, almeno, aveva una qualche verve. Qui abbiamo solo la tristezza grigia di un burocrate che ha scoperto i termini anglosassoni e se ne compiace. La scuola “comunità educante del futuro” non è altro che una scatola vuota, riempita di retorica e gestita come una catena di montaggio, dove gli insegnanti non sono più maestri, ma “facilitatori”, e gli studenti non sono persone da educare, ma “stakeholder” da allineare alle “esigenze del territorio”.

Mi vengono in mente Pirandello, il suo umorismo amaro, la sua capacità di scavare nel grottesco delle maschere che indossiamo. Lui avrebbe visto in questo piano Indire l’ennesima tragica farsa, la commedia della nostra incapacità di affrontare la realtà senza ricorrere a eufemismi e paroloni altisonanti. Il “docente stanziale” è morto, viva il “tutor di prossimità”. La scuola, come la conosciamo, si è suicidata per non morire di vecchiaia. E noi, seduti in platea, applaudiamo la recita della sua reincarnazione in un mostro di Frankenstein fatto di acronimi e “partenariati”. Lunga vita alla scuola del futuro, la scuola che non è più una scuola.

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