Economia della disattenzione

Ma dove siamo finiti? O, meglio, dove ci siamo lasciati cadere? L’umanità, si sa, ha una propensione al masochismo che farebbe impallidire i più devoti flagellanti. Non contenti di aver inventato la guerra e la burocrazia, abbiamo deciso di consegnare anima e corpo, e persino il rimasuglio di un’ipotetica dignità, a un pugno di signori in felpa che, con un sorriso da bravi ragazzi, ci hanno promesso il Paradiso in Terra. E noi, come una nidiata di tordi beati, ci siamo cascati con tutte le penne.

Il tema è, ovviamente, il cosiddetto “consenso”. Una parola che, nelle mie orecchie da vecchio cronista, risuona come il tintinnio di un cappio che si stringe. Il consenso, ci dicono, è il fondamento della nostra vita digitale. Acconsenti, e il mondo è tuo. Non acconsenti, e sei un eremita digitale, un paria, un reietto. E noi, poveri illusi, abbiamo accettato. Abbiamo firmato contratti il cui contenuto è più inaccessibile delle tavole della legge sul monte Sinai, e lo abbiamo fatto con la stessa leggerezza con cui si ordina un caffè al bar. “Accetto”, un clic, un attimo, e via. Non abbiamo letto, non abbiamo compreso, non abbiamo nemmeno tentato. Ci siamo fidati. Fidati di chi? Di aziende che hanno il nostro benessere come ultima delle preoccupazioni, che hanno il profitto come unico verbo e la nostra esistenza come una miniera di dati da saccheggiare.

Questa storia ha l’aria di una di quelle commedie pirandelliane dove l’individuo, convinto di essere un uomo libero, si scopre essere solo una maschera, un’ombra proiettata su un muro. Il paradosso del “consenso come gabbia” è il perfetto capitolo di una farsa tragicomica. Ci illudiamo di essere padroni di noi stessi perché abbiamo la libertà di scegliere se usare o meno un’app, se postare una foto o un commento. Ma la scelta è un’illusione. È come quella del condannato a morte che può scegliere se farsi impiccare o fucilare. La libertà non è l’opzione di scegliere tra due forme di sottomissione, ma la possibilità di non essere sottomessi affatto. Ma questa possibilità, nel nostro mondo “connesso”, non esiste più.

Shoshana Zuboff, questa Cassandra del nuovo millennio, ha provato a metterci in guardia. “Capitalismo della sorveglianza”, dice. Un’espressione che, se non fosse così dannatamente vera, avrebbe l’aria di una paranoia da complottisti. Ma non c’è complotto, qui. È tutto alla luce del sole. Anzi, è tutto alla luce dei nostri schermi, che ci proiettano in un mondo dove non siamo più persone, ma “prodotti di previsione”. Le nostre vite, la nostra stessa umanità, sono state ridotte a una materia prima, a un insieme di segnali da estrarre, processare e monetizzare. Un tempo, la materia prima era il carbone, era il petrolio. Oggi, siamo noi. I nostri desideri, le nostre paure, i nostri gusti, le nostre opinioni. Tutto diventa un dato, un numero in un algoritmo. E questo algoritmo, come un oracolo moderno, ha il potere di prevedere le nostre azioni, di manipolare le nostre scelte, di venderci a chiunque voglia comprare un pezzetto della nostra anima.

Questa è la “nuova economia della disattenzione”. E il termine è di un’ironia così amara che non necessita nemmeno di un sorriso. Disattenzione. La nostra. Siamo così presi a consumare, a scorrere, a cliccare, che non ci accorgiamo che la nostra attenzione è la moneta di scambio, e che la merce siamo noi. Ci siamo abituati a non leggere. I contratti, i termini di servizio, le informative sulla privacy. Sono scritti in un “latinorum” volontariamente oscuro, un gergo da avvocati e ingegneri che ha lo scopo di scoraggiare qualsiasi tentativo di comprensione. E noi, docili e distratti, abbassiamo lo sguardo e clicchiamo su “accetto”. In quel momento, firmiamo un patto col diavolo, e lo facciamo senza nemmeno rendercene conto. Non è un atto volontario, è un gesto di rassegnazione.

La mercificazione dell’essere umano. Un concetto che, fino a pochi anni fa, apparteneva alle pagine di Marx e di qualche filosofo polveroso. Oggi, è la nostra realtà quotidiana. Siamo ridotti a profili comportamentali, a previsioni statistiche. La nostra unicità, la nostra irriducibile individualità, è stata schiacciata da un algoritmo che ci classifica, ci etichetta e ci vende. Ci dicono che la tecnologia ci rende più liberi, più connessi. Ma in realtà, ci rende più prevedibili, più controllabili.

E la democrazia, in tutto questo? La democrazia, che per sua natura si basa sulla imprevedibilità del pensiero umano, sulla capacità di cambiare idea, di confrontarsi, di mettersi in discussione, si dissolve in una nube di dati. I “filter bubbles”, le “echo chambers”. Non sono altro che la versione digitale delle gabbie che ci siamo costruiti da soli. Invece di confrontarci con opinioni diverse, ci rintaniamo in bolle di consenso, dove sentiamo solo quello che vogliamo sentire, dove le nostre convinzioni vengono rafforzate e mai messe in discussione. E il pensiero critico, quella capacità di mettere in discussione anche le proprie certezze, si atrofizza come un muscolo inutilizzato.

La vera farsa, tuttavia, sta nell’illusione che si possa scappare. L’opzione dell'”opt-out”. Ci dicono che se non ci piace, possiamo disconnetterci. Ma questa è la menzogna più grande di tutte. Disconnettersi, oggi, non è un atto di libertà, ma un gesto suicida. Significa auto-escludersi dal mondo del lavoro, dalla socialità, dall’accesso a servizi essenziali. È l’anticamera del buio. Il “balcone”, un tempo estensione della casa, è diventato una finestra sul mondo digitale, e la nostra vita non si svolge più nel “tinello” privato, ma in un “onlife” ibrido, dove siamo costantemente monitorati e mercificati.

Certo, la rassegnazione è la via più facile. Accettare il nostro destino di merce, chinare il capo e continuare a scorrere. Ma se c’è una cosa che il pessimismo di un vecchio giornalista ha insegnato, è che l’analisi, per quanto amara, è il primo passo verso una possibile, per quanto improbabile, soluzione. Dobbiamo tornare a pensare. E pensare significa dubitare. Il “metodo DRS”, di cui si parla, non è una formula magica, ma un semplice ritorno all’umano. Dubitare, riflettere, tacere. Invece di reagire d’istinto a ogni stimolo, dobbiamo fermarci. Far respirare il cervello. Distinguere la sostanza dalla retorica, i fatti dalle frottole, la verità dalla manipolazione.

E poi, dobbiamo lottare. Non con le armi, ma con il diritto. Il “diritto alla disconnessione” deve diventare un’esigenza, non una richiesta. Un principio sacro che ci permetta di staccarci dalla rete senza essere puniti. Non solo la possibilità di non rispondere a una mail fuori orario, ma la garanzia di una vita fuori dal monitoraggio costante. E, infine, dobbiamo tornare a essere umani. A guardare le persone negli occhi, non solo sui nostri schermi. A parlare, non solo a chattare. A ridere insieme, a piangere insieme. A essere imprevedibili. Perché l’unica vera resistenza al capitalismo della sorveglianza, l’unica vera risorsa che non potrà mai essere monetizzata, è la nostra umanità, con tutta la sua meravigliosa, caotica, irriducibile e inservibile complessità.

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