Cappuccetto__Queer

C’era una volta una bimbetta che non voleva più essere “dolce”.
Indossava un cappuccino di velluto rosso perché il rosso era il colore delle donne che si ribellano, non delle bambine obbedienti.

Un giorno la madre – prigioniera lei stessa di ruoli cuciti addosso come vestiti troppo stretti – le consegnò focaccia e vino: «Portali alla nonna, ma resta sul sentiero, non parlare con nessuno».
Cappuccetto annuì, ma nella testa già roteava un pensiero più grande del bosco: «Perché mai una donna deve “restare sul sentiero” mentre i maschi possono correre ovunque?».

Nel bosco incontrò il lupo.
Non fu il lupo a spaventarla: fu la sua voce maschia, sicura, che le ordinava dove andare.
Cappuccetto alzò lo sguardo e vide i fiori, ma vide anche che i fiori erano irrigati dal lavoro invisibile delle donne del villaggio.
Decise di coglierne un mazzo per la nonna, ma non per compiacere: per ricordarle che la bellezza si può raccogliere solo se si ha la libertà di allontanarsi.

Il lupo, intanto, correva verso la casa della nonna.
Quel lupo però non era “cattivo” per natura: era la maschera di un sistema che insegna ai maschi a dominare e alle femmine a farsi da parte.
Cappuccetto lo seppe quando, entrando nella capanna, trovò la “nonna” con la cuffia calata sulle orecchie troppo grandi: nonna era diventata lupo, lupo era diventato nonna, in un groviglio di paura e potere.

Invece di urlare, Cappuccetto abbassò la voce:
«Nonna, orecchie grandi per non ascoltare più gli ordini di nessuno.
Occhi grandi per vedere chi siamo davvero.
Mani grandi per costruire, non per afferrare.
Bocca spaventosa per dire “basta” a chi vuole chiuderci la bocca».

Il lupo balzò fuori dal letto, ma non la divorò: la guardò, smarrito.
In quel momento entrò la femmina del lupo – affamata, stanca, gravida – che da mesi cercava di convincere il compagno a lasciare il sentiere della violenza.
Cappuccetto e la lupa si riconobbero: due prigioniere dello stesso racconto.

La lupa si voltò verso il maschio: «Se continui a inghiottire donne, un giorno la pancia ti esploderà di tutte le nostre voci».
Cappuccetto aprì il cesto: dentro non c’erano solo focaccia e vino, ma anche forbici, ago e filo rosso.
Insieme tagliarono la pancia del lupo – non per ucciderlo, ma per liberare le storie inghiottite: nonne, madri, figlie, lupi addomesticati, uomini che avevano paura di piangere.

Dal ventre uscirono pietre dipinte di rosso: ogni pietra era un “deve”, un “non puoi”, uno “sta’ zitta”.
Le gettarono nel trogolo bollente delle salsicce – simbolo di un lavoro domestico mai pagato

– e le trasformarono in inchiostro.
Con quell’inchiostro riscrissero la fine della fiaba:

«La nonna non era malata: era stanca di stirare coperte per un mondo che le rubava il tempo.
Il cacciatore non era eroe: era un uomo che aveva imparato a cacciare per non farsi cacciare.
Il lupo non era cattivo: era un maschio che non aveva mai imparato a chiedere “aiuto”.
E Cappuccetto non era più “rossa” per il vestito: era rossa di rabbia, di desiderio, di libertà».

Da quel giorno Cappuccetto e la lupa camminano fuori dal sentiero.
Portano ancora cesti, ma dentro ci sono semi, non focacce.
Seminano boschi di querce dove ogni donna – umana o lupa – può urlare, ridere, correre, fermarsi, amare.

E se qualcuno ti dice che le fiabe devono finire con “vissero felici e contenti”, rispondi:
«Le fiabe finiscono quando smettiamo di raccontare la stessa storia».

Lascia un commento